Nel 1899 lessi nella rivista «L’Iniziazione», a firma del suo direttore Papus (Dr. Gérard Encausse) un articolo intitolato “Il Padre dei Poveri”. In quelle pagine, l’autore faceva un panegirico commovente di Maître Philippe, senza tuttavia nominarlo. Provai subito il desiderio imperioso di fare la conoscenza di quest’essere che emanava una luce sovrumana. Immediatamente lasciai Strasburgo per recarmi da Papus a Parigi. Che mi offrì un’ospitalità molto cordiale e, qualche tempo dopo, mi portò a Lione per presentarmi a M. Philippe.
Questo incontro ebbe luogo nel laboratorio del Maestro al numero 6 di Rue du Boeuf, ai piedi della collina di Fourvière. Due stanze al pianterreno, una che affacciava sulla strada, l’altra, il laboratorio vero e proprio, su un cortile interno.
Aspettavamo da qualche momento nella stanza attigua laboratorio, quando la porta di comunicazione si aprì; nella luce del riquadro, apparve un uomo di taglia media, di una cinquantina d’anni. Era M. Philippe. Questa apparizione suscitò in me un’emozione profonda. Tutto il mio essere si tendeva verso di lui, come per rispondere a un richiamo inespresso
Subito, in tono paterno, mi disse con mio grande stupore:
«Ah, eccoti! Era tempo che tu venissi».
Il suo darmi del non mi aveva sorpreso; al contrario, mi sembrava così reale che credo ne avrei sofferto se non l’avesse fatto.
Papus l’aveva invitato a colazione e lui aveva accettato. A mezzogiorno lo ritrovai in un noto ristorante della città, dove incontrai altri quattro invitati, fra cui il dottor Lalande, genero di M. Philippe. Furono serviti dei tordi su crostini, ma M. Philippe, che presiedeva al pasto, non ne mangiò, dicendo con dolcezza:
«L’uomo non deve mangiare uccelli; essi non sono stati creati per il suo nutrimento».
Una signora gli disse allora:
«Eppure, voi mangiate del manzo».
«Se io ne mangio ‑ rispose lui ‑ è perché ti sia permesso di mangiarne».
Un profondo silenzio interruppe la conversazione fino ad allora animata. Riflettevo. Tutto ciò era così nuovo, così inatteso. Eppure quella dolcezza, quella benevola autorità, s’imponevano con naturalezza su di me.
Alle due ci recammo alla villa dove abitava M. Philippe, a Rue Tête-d’Or, 35. Là il Maestro teneva giornalmente delle sedute in una grande stanza al primo piano. Era una sala con lunghe panche in legno massiccio, ove potevano prender posto circa ottanta persone, e una scrivania installata contro il caminetto di marmo che si trovava in fondo alla sala. La luce era attenuata dalle tende giallo chiaro delle grandi finestre.
Al nostro arrivo, la sala era piena di gente appartenente a tutte le classi sociali, fra cui molti malati ed infermi. Quando M. Philippe entrò, un silenzio rispettoso lo accolse. Chiuse la porta dietro di sé, perché la riunione non fosse disturbata dai ritardatari, i quali dovevano attendere, in una sala del piano terra o nel cortile, una seconda riunione. Immediatamente egli si rivolse, a turno, alle persone presenti. Ognuno gli confidava, a voce alta o a voce bassa, le sue preoccupazioni, o quelle degli afflitti per i quali veniva a consultarlo.
Quel giorno sentii M. Philippe dire a una donna anziana: «Il tuo gatto sta meglio?» e quella rispondere: «Sì, sono venuta a ringraziarvi».
Allora M. Philippe, rivolgendosi a tutti: «Sapete cosa ha fatto questa signora ieri sera, alle dieci? Ha pregato per il suo gatto malato, e il gatto è stato guarito». La vecchia assentiva con il capo e la sala rideva. Ciò che quella signora aveva fatto la vigilia, nel segreto della sua casa, l’uditorio l’ignorava, ma M. Philippe, lui, lo sapeva!
Continuando la sua consultazione, si fermò davanti ad un uomo di una certa età. Prima che questi aprisse bocca, gli disse: «Il Cielo ti accorda ciò che tu desideri», e girandosi verso di noi aggiunse: «Voi vorreste certo sapere perché questo signore ottiene subito ciò che domanda. È che ha fatto molti sforzi per correggersi dai suoi difetti». Quindi M. Philippe conosceva la vita e i pensieri di quell’uomo, che aveva ottenuto subito ciò che sperava perché lottava per divenire migliore.
Andando dall’uno all’altro, ebbe una parola per ciascuno. Alle domande poste sulle sofferenze, le difficoltà, rispondeva con una benevolenza e un’autorità che s’imponevano, perché si capiva che egli leggeva senza difficoltà negli spiriti e nei cuori. Dei malati tendevano le mani verso di lui, egli li rincuorava ed essi venivano aiutati, o guariti. Disse a una persona: «Tuo marito sta meglio, ringrazia il Cielo». A un’altra: «Tuo figlio è guarito, devi pagare. Non è del denaro che io chiedo, ma che tu non dica male del tuo prossimo durante una giornata».
Poi, indicando uno storpio: «Volete pregare per questo infermo e promettermi di non dir male di nessuno per due ore?». Tutti risposero: «Sì!».
Dopo un istante di raccoglimento ordinò al poveretto di fare il giro della sala. Questi si alzò e, fra lo stupore generale, camminò senza stampelle e senza aiuto. Esclamazioni, gridi di gioia espressero l’emozione e la gratitudine dei presenti; lacrime scorrevano sui visi.
Mi si comprenderà se, la sera di quella giornata memorabile, presi la risoluzione di non accompagnare Papus nel suo viaggio di ritorno a Parigi e di restare a Lione.
Il giorno dopo, alle due, mi affrettai verso la Rue Tête-d’Or. Vidi ancora delle guarigioni miracolose operate dal divino “Padre dei poveri”. Dopo la riunione, M. Philippe m’invitò a salire con lui al secondo piano, dove si trovava il suo appartamento.
Là si occupò della sua voluminosa corrispondenza, e fui stupefatto di vedere quest’uomo, che sapevo così caritatevole, che ascoltava con tanta bontà le lamentele degli infelici, prendere le lettere, poi gettarle l’una dopo l’altra nel caminetto, senza aprirle né leggerle. Certamente ne sapeva il contenuto senza aver bisogno di scorrerle. E, come se avesse voluto convincermi che in effetti sapeva tutto, mi citò ad un tratto, e senza cambiarne una parola, una conversazione che avevo avuto tre anni prima con il mio capo ufficio nel cortile della fabbrica di cui ero allora condirettore. Esclamai: «Come potete sapere ciò che ho detto e fatto tre anni fa, quando non mi conoscevate ancora, ed ero solo con Léon nel cortile della fabbrica, a 500 chilometri da qui?».
Mi rispose il più tranquillamente possibile: «Ero presente alla vostra conversazione».
Dopo aver dato fuoco al mucchio di lettere nel camino, si preparò per andare a piedi alla stazione Saint-Paul, per prendere il treno de L’Arbresle dove abitava d’estate; poi mi domandò: «Vuoi accompagnarmi fino alla stazione?».
Accettai con slancio e il tragitto percorso al fianco del Maestro mi parve brevissimo. Lo lasciai ringraziandolo caldamente e gli confidai il mio desiderio di restare presso di lui e di seguirlo.
Allo stupore e alle emozioni derivanti da tutto ciò che avevo visto e sentito da due giorni, subentrava in me una gioia inesprimibile. Questo incontro divino dava bruscamente un orientamento nuovo al mio destino. Tutto si è sistemato in seguito perché io potessi abitare a Lione e che mi fosse fatta la grazia di vivere presso M. Philippe in un’intimità quasi quotidiana, fino al momento in cui lasciò questa Terra.
Qualche tempo dopo, il Maestro m’invitò a colazione da lui a Rue Tête-d’Or. Dopo il pasto mi disse: «Noi partiamo, la mia famiglia ed io, dalla stazione Est, per andare a Loisieux, dove si trova la mia casa natale».
Pensai che sarei stato molta felice di vederla. Rispondendo al mio pensiero, mi disse: «Te la mostrerò».
Qualche istante dopo, M. Philippe e i suoi salirono in vettura e partirono. Stavo per prendere congedo dalla signora Landar, sua suocera, quando la domestica, Félicie, scese le scale correndo e gridò: «Mio Dio, M. Philippe ha dimenticato la sua pipa!».
Gliela chiesi e presi una carrozza per portarla. Davanti alla stazione vidi M. Philippe, al quale tesi la pipa nel suo astuccio. «Ne ho già due» mi disse.
«Devo riportarla a Félicie?».
«No, vai a salutare mia moglie nella sala d’attesa».
Vicino alla signora Philippe c’era sua figlia, che esclamò vedendomi: «Venite con noi a Loisieux?». «No, vengo soltanto a portare una pipa a M. Philippe».
Allora si allontanò correndo e tornò con suo marito, il dottor Lalande, che mi consegnò un biglietto per la Savoia.
Scendendo dal treno, prendemmo una vettura a quattro posti; mi sedetti accanto al cocchiere. Pioveva e pensai: “Che bella bronchite mi prenderò”. Nello stesso istante la signora Lalande mi chiamò e mi disse: «Mio padre ha detto che nessuno prenderà freddo».
Lassù, M. Philippe mi fece visitare la sua piccola casa natale, abitata da suo fratello Augusto. Al piano terra una sola stanza con un grande camino e contro il muro un’antica pendola. Una scala conduceva al primo piano, dove M. Philippe venne al mondo. Mi mostrò il giardino, la stalla, il pozzo, poi la chiesa dove era stato battezzato e dove mi sarei più tardi sposato in sua presenza.
Diversi fedeli ascoltatori, desiderosi di conservare il più possibile gli insegnamenti di M. Philippe, prendevano appunti alle riunioni oppure scrivevano appena rientrati a casa ciò che ricordavano delle parole del Maestro, e ciò che avevano visto. I suoi familiari pure annotavano i suoi discorsi e gli avvenimenti della sua vita.
Essendo stato in relazione con tutte le persone di cui si troverà più oltre la lista, queste mi hanno affidato poco a poco, come ho già detto, i manoscritti composti fra il 1889 e il 1905. Alla loro testimonianza ho aggiunto la mia propria testimonianza, al fine di salvare dall’oblio parole e atti facenti eco alle parole e agli avvenimenti che, venti secoli fa, hanno cambiato la faccia del mondo.
Tuttavia, non potendo un volume come questo contenere tutto ciò che mi è stato dato conoscere su M. Philippe, sono stato costretto a fare una scelta, e ho raggruppato come meglio ho potuto i testi raccolti, seguendo un piano il più logico possibile. Il lettore avrà così una veduta d’insieme sugli argomenti trattati, ma non dovrà mai perdere di vista che le parole pronunciate dal Maestro si applicavano spesso a dei casi particolari. D’altronde diceva lui stesso: «Alla riunione ciascuno intende ciò che deve intendere». Il che significa che molte parole non erano comprese o sfuggivano ad alcuni presenti. Questa diversità di comprensione, queste lacune, si traducono in varianti negli scritti che mi sono pervenuti.
Le frasi scelte sono necessariamente frammentarie, e nessuno vuole pretendere che esse costituiscano “l’insegnamento di M. Philippe” perché mai egli ha esposto una dottrina elaborata seguendo le nostre abitudini intellettuali. Egli ha detto spesso che le nostre conoscenze non sono che delle immagini e il nostro mentale uno specchio, aggiungendo: «Colui che amasse il suo prossimo come se stesso, saprebbe tutto».
Il lettore troverà in queste pagine soprattutto delle direttive, che rivelano, con una luminosa semplicità, i mezzi per realizzare nella vita quotidiana i grandi precetti evangelici: preghiera, umiltà, amore del prossimo come di tutte le creature, e accettazione della sofferenza.
Ma ciò che questo libro non può dare è l’ambiente di quegli incontri, l’impressione di pace che si provava presso quell’essere unico, l’accento della sua voce, la luce che emanava da lui. Ciò che è intraducibile è l’immensa bontà che da lui irradiava, l’energia vittoriosa scaturente da tutta la sua persona, la certezza che egli infondeva nei nostri cuori, più forte di tutti i ragionamenti, e che ci dava la buona volontà e il coraggio; è questa comunione con la sofferenza umana, questo potere di consolazione, che non dimenticherà nessuno di quelli che hanno lanciato verso di lui il grido della loro angoscia o della loro disperazione.
Tuttavia lo Spirito di Dio parla ugualmente al nostro spirito attraverso il libro, ed esprimo il voto che il lettore possa sentire, davanti alle parole che ho qui trascritto, ciò che ho provato io stesso sentendole.
Ecco i nomi di quelli che hanno raccolto le parole e gli aneddoti contenuti in quest’opera:
Auguste Philippe, fratello del Maestro
Vittoria Lalande, figlia del Maestro, prima moglie del dottorLalande
Dottor Emmanuel Lalande, genero di M. Philippe
Marie Lalande, seconda moglie del dottor Lalande
Jean Chapas, il discepolo più vicino al Maestro
Louise Chapas, moglie del precedente
Dottor Gérard Encausse (Papus)
Sédir, scrittore mistico
Benoit Grandjean, ragioniere
Laurent Bouttier
Jean-Baptiste Ravier.
Jules Ravier, figlio del precedente
Jacques Comte
Condamin-Svarin
Golfin de Murcia, segretario al Consolato di Cuba
Auguste Jacquot, ingegnere
Marie Glotin
Hausser
René Philipon
Raoul Sainte-Marie
Io stesso, Alfred Haehl.
M. Philippe era di taglia media, d’aspetto molto semplice. Aveva dei capelli neri molto fini, portati piuttosto lunghi. I suoi occhi, di colore cangiante, erano di solito d’un marrone molto chiaro, punteggiato di pagliuzze dorate. Lo sguardo era di una dolcezza penetrante; vivo e mobile, si portava spesso più lontano della persona o dell’oggetto considerati, e diveniva a volte imperioso.
Tanto più la sua attitudine era pensosa e grave, tanto più raddrizzava il busto e la testa, il suo colorito e la tinta degli occhi si schiarivano: risplendeva.
Camminava molto, senza affrettarsi. Mai pressato, non era mai inattivo. D’una grande abilità manuale, poteva fare da sé i suoi strumenti di laboratorio. Fumava molto, e non si accordava che pochissimo sonno.
Nella sua attività instancabile sapeva trovare il tempo di fare una partita la sera in famiglia, alla birreria, o di andare a teatro con i suoi. Talvolta scherzava con bonomia, il più delle volte per far nascere un pensiero elevato.
Non mostrò mai preferenza per alcuna classe sociale; di una squisita gentilezza con chiunque, parlava a tutti con una benevola semplicità. Ma, al di là di questa benevolenza, un’autorità e una libertà trascendentali emanavano da lui. Questo è comprensibile poiché:
«Egli era – dice il dottor Lalande – talmente grande in conoscenza, così libero, che nessuno dei nostri metri di giudizio si adattava a lui. Logica, morale, sentimento della famiglia, tutto ciò non era per lui ciò che è per noi, poiché la vita intera si presentava a lui con il passato e l’avvenire legati insieme in un sol tutto spirituale di cui sapeva la natura, l’essenza, le ragioni, le leggi, di cui possedeva gli ingranaggi... E dava con il suo operare, le sue cure morali e fisiche, gli atti di scienza o di miracolo (cioè “super-scienza” per noi), delle prove che il suo insegnamento era vero». |