M. Philippe si trovava un giorno in uno scompartimento ferroviario in compagnia di un vescovo e di un uomo di sua conoscenza che era amico del vescovo. La conversazione si portò su delle questioni teologiche. Alla seduta serale M. Philippe diceva spesso cose come: «Tuo cognato legge in questo momento tale giornale. ‑ L’imperatore di Germania ha appena detto questo ecc.». E, davanti al nostro stupore, diceva: «Sapete perché il mio spirito può espandersi così simultaneamente ovunque? Semplicemente perché sono il cane del Pastore e ho il diritto di passeggiare su tutte le terre del proprietario». Una notte, tornando dal suo laboratorio, M. Philippe, dopo aver attraversato il ponte Morand, mi pregò di attenderlo qualche istante accese la sua pipa e discese sulla sponda del Rodano. Là si diresse verso tre uomini che deliberavano su un colpo che volevano fare. Vedendolo venire solo dalla loro parte si credettero scoperti dalla polizia e, quando egli li interpellò, cominciarono a negare. «Non negate, dunque ‑ disse loro, e ad uno d’essi ‑ sei tu che hai dato l’idea». Un giorno, M. Philippe s’accostò davanti a me ad un pover’uomo accovacciato che mendicava a un’estremità della passerella del Collegio. Le sue gambe, schiacciate da una vettura, erano paralizzate. Lo portavano là e lo riprendevano la sera con una carrozzella M. Philippe gli disse: «Conosco qualcuno che potrebbe guarirti. Bisogna solo chiedere a Dio e le tue gambe cammineranno di nuovo. Prometti di domandare a Dio?»‑ «Sì», rispose. Il Maestro mi disse mentre andavamo via: «Non chiederà proprio nulla è già la seconda esistenza che passa così storpio. Non vuole lavorare». Alla riunione un uomo dal portamento arrogante faceva ad alta voce delle osservazioni malevole mentre M. Philippe parlava: «Bisogna essere idioti per credere a tutte queste sciocchezze», e altri commenti dello stesso genere M. Philippe passando accanto a lui nel suo giro, lo pregò di accompagnarlo nella stanza vicina. Là gli disse: «Perché quel tale giorno, a tale ora, hai strangolato quella donna? Ero vicino a te». L’uomo cadde in ginocchio, supplicando M. Philippe di non consegnarlo alla polizia. «A condizione ‑ gli fu risposto ‑ che tu cambi vita e segui la tua religione». «Se seguo la mia religione, dovrei confessarmi». «Tu ti sei confessato a me, questo basta». E l’uomo se ne andò piangendo. C’era a L’Arbresle un uomo che guariva le bruciature. Ebbe qualche insuccesso accusò M. Philippe di esserne la causa e sparse sul suo conto dei pettegolezzi calunniosi. M. Philippe lo fece chiamare. Immergendo allora due dita della mano destra nell’acido solforico pregò il suo ospite di guarire la bruciatura. Per più di due ore questi fece tutti i suoi sforzi, mentre l’acido corrodeva la pelle intaccando la carne. Quando riconobbe umilmente la sua impotenza: «Bene ‑ gli disse M. Philippe ‑ in avvenire avrai più facilità a guarire le bruciature». Un malato non otteneva alcun miglioramento. M. Philippe gli domandò: «Ti penti dei tuoi errori?». Il malato sorpreso rispose: «Ma io non ho mai fatto del male ad alcuno, ho sempre dato ai poveri», e così di seguito. Allora M. Philippe replicò. «In queste condizioni il Cielo non può nulla per te». Alla riunione vidi arrivare un giorno un uomo che veniva per la prima volta. Aveva un aspetto terribile che mi fece paura. Quando M. Philippe entrò, mandò a prendere un rotolo di corda e disse: «Oggi voglio impiccarvi». Scelse una dozzina di persone e le allineò una dietro l’altra, l’uomo dal viso ripugnante per primo ed io per ultimo. Poi circondò con la corda il collo del primo, la passò sulle spalle delle altre persone, le due estremità pendenti sulle mie spalle, dietro. Domandò: «Chi vuol essere il giustiziere?». «Io» gridò una signora. «Allora, adesso annoderai le estremità della corda che pendono sulle spalle di questo signore (indicando me) e stringerai bene il nodo». In quel momento il primo uomo del gruppo cadde. Era spaventoso a vedersi, il volto rattrappito e la lingua penzolante, una lingua di una lunghezza smisurata. L’uomo non si era reso conto di nulla. Ed io ebbi l’impressione, se non la certezza, che M. Philippe gli avesse evitato il patibolo. Tornavamo, M. Philippe ed io, da Sathonay a Lione in una carrozza a cavalli completamente scoperta. Il vento era così forte che ero obbligato a tenere con la mano il mio cappello sulla testa perché non volasse via. Il Maestro aveva caricato la sua pipa. Perché potesse accenderla al riparo dal vento, stavo preparando il mio cappello, ma lui mi pregò di rimettermelo in testa, senza aggiungere che non ne aveva bisogno. Poi, prendendo un fiammifero dalla scatola, l’accese e, mentre discorreva d’altro, lasciò che la fiamma consumasse in pieno vento la metà del fiammifero, poi, come se fosse stato in una stanza, accese tranquillamente la pipa. Non credevo ai miei occhi. La fiamma aveva resistito al vento come se questo non fosse esistito. Compresi allora che il Maestro non aveva bisogno del mio cappello per proteggere quella fiamma, ma che il mio cappello aveva bisogno della mia mano per non volar via dalla mia testa, tanto violento era il vento. Un giorno faceva un caldo torrido nella sala delle riunioni. Qualcuno disse che la sala avrebbe dovuto essere trasportata a Bellecour. «In effetti ‑ rispose M. Philippe ‑ la stanza potrebbe essere trasportata a Bellecour solo che questo richiederebbe molti fastidi. Ma si può far venire qui l’aria di Bellecour». E, nello stesso istante, un turbine d’aria leggera impregnata di Sole passò nella sala. Un giorno che c’era folla e che molte persone erano in piedi, M. Philippe ascoltava le lamentele di un poveretto in fondo alla sala, quando bruscamente un contadino si alzò e si precipitò verso la porta che era stata chiusa a chiave da M. Philippe. Non potendo aprirla, egli la scuoteva vigorosamente, a tal punto che M. Philippe l’interpellò: «Ehi! Non vorrai mica demolirmi la casa!». «No, rispose l’altro, ma bisogna ch’io vada di corsa al gabinetto». «In questo caso non hai che da dire alla porta: Apriti! ed essa si aprirà». ‑ «Porta, apriti!» gridò il contadino. All’istante i due battenti della porta si spalancarono. 1 più vicini guardarono chi avesse potuto aprire il vestibolo e le scale erano vuoti. Lo stupore era generale e una buona risata scuoteva i presenti. Ma tutti erano altresì presi d’ammirazione per i poteri del Maestro, che comandava alla materia inerte, e anche per la fede del contadino nella sua parola. Tempo addietro un vecchio accompagnava spesso il Maestro nelle sue faccende. Lo chiamavano papà Galland. Una notte il Maestro e papà Galland furono costretti ad attraversare un bosco molto scuro lo attraversarono senza difficoltà, benché il sentiero che seguivano fosse mal tracciato. Il giorno dopo il papà Galland raccontava ad una persona di sua conoscenza le impressioni del suo viaggio, senza dimenticare il passaggio nel bosco. Questa persona si mostrò molto meravigliata che essi avessero potuto attraversare il bosco in una notte così scura. Papà Galland le disse: «Con Philippe si attraversano senza difficoltà le foreste più scure nelle notti più nere. Così ieri, quando siamo stati nel bosco, un raggio di luce ci ha accompagnato in modo da facilitarci la traversata». Bou Amama era l’indovino del villaggio arabo all’Esposizione universale del 1900 a Parigi. Papus gli aveva parlato di M. Philippe ed egli aveva espresso il desiderio di recarsi a Lione per vederlo. Aveva, diceva, molte cose da dirgli. Fui incaricato di ricevere e di guidare quel vecchio Arabo, poi di condurlo alla riunione nel giorno che M. Philippe aveva fissato. Là egli restò un momento davanti al Maestro e fui meravigliato nel vedere che egli non gli parlava. Finita la riunione, scendemmo le scale, lui ed io, e ci andammo a sedere su una panchina nel cortile dove M. Philippe doveva raggiungerci. Là avemmo per venti minuti una conversazione generale, poi M. Philippe ci lasciò. E, quando espressi a Bou Amama il mio stupore che egli non avesse posto a M. Philippe le numerose domande su cui desiderava intrattenerlo, mi rispose: «Gli ho detto tutto, ed egli mi ha risposto». Gli chiesi allora: «Che pensate di Maltre Philippe?». Disse, alzando l’indice della mano destra: «È grande, è molto grande, è il più grande». Un giorno che nella sala d’attesa della stazione di Saint-Paul mi congedavo da M. Philippe, un amico del Maestro mi avvicinò e mi chiese se l’avessi visto. Aveva, mi disse, bisogno urgente di parlargli. Imbarazzato, perché M. Philippe era là, in piedi al mio fianco, risposi a quell’amico: «Normalmente prende il treno a quest’ora, può darsi che potrete vederlo». Il Dottor Lalande, quando tornò dalla Russia dove aveva accompagnato M. Philippe, mi disse: «Un giorno il Maestro era seduto in una carrozza al fianco della zarina, durante una rivista. Uno dei granduchi, avendo scorto un uomo in abiti civili nel calesse imperiale, si precipitò al gran galoppo col suo cavallo. Ma, accostatosi, fu stupefatto nel vedere la zarina sola nella vettura. Dovette fare a due riprese quest’andata e ritorno per convincersi che M. Philippe poteva rendersi invisibile». Un abitante di Tarare che con una bacchetta ritrovava gli oggetti perduti, venne un giorno dal Maestro a L’Arbresle. Il Maestro prese una pietra, vi tracciò un segno con una matita e domandò all’uomo se voleva che gli si bendassero gli occhi. Questi rispose che acconsentiva. Il Maestro, dopo avergli bendato gli occhi, lanciò la pietra con forza e quando gli stava per levare la benda l’uomo gli disse che pensava di ritrovare la pietra con gli occhi bendati. Prendendo la sua bacchetta, camminò nella direzione della pietra e la trovò. Il Maestro disse allora: «Vedete che nessuna nuvola c’è nel firmamento e che nulla fa presagire cattivo tempo è mio desiderio che tra un quarto d’ora una pioggia torrenziale cada su tutta L’Arbresle ed anche su questa tenuta, e che neanche una goccia d’acqua cada sulla terrazza dove ci troviamo». Trascorso il quarto d’ora, il desiderio del Maestro fu realizzato in ogni punto e, mentre la pioggia cadeva con più abbondanza, il Maestro aggiunse: «Ora, se lo desiderate, un raggio di Sole verrà ad illuminare la casa». Ma l’uomo dalla bacchetta non chiese di più, appena la pioggia passò prese congedo dal Maestro e non tornò più a vederlo. Il fattore della signora Landar era presente, così come la famiglia del Maestro. Ho visto per lungo tempo un arancio, posto in una grande cassa di legno, che ornava la terrazza della fattoria Landar. Questo albero un tempo era morto e il fattore l’aveva gettato in un angolo su un mucchio di calcinacci e immondizie. Era restato lì tre anni. Un giorno M. Philippe l’ha richiamato in vita ed esso ha ricominciato a germogliare e a fiorire. Ha ripreso il suo posto sulla terrazza, dove tutti l’ammiravano. M. Philippe mi ha dato alcune delle sue foglie per farne delle infusioni che facilitano il sonno. Un malato, sofferente d’una affezione allo stomaco e considerato incurabile dai medici, si presentò per la prima volta alla riunione. Il Maestro domandò ad un farmacista presente quale pianta gli si poteva dare come medicamento. Non sapendo questi cosa rispondere, gli disse di nominare una pianta qualsiasi. Allora fu pronunciato il nome di menta. Il Maestro fece notare che vi sono tre tipi di menta e scelse la menta detta piperita. «Ma siccome non abbiamo di questo tonico sottomano ‑ disse ‑ ne fabbricheremo col permesso di Dio». Pregò un presente di arrotolare un foglio di carta in forma di cartoccio come recipiente e di fare il gesto di versarne il contenuto sulla testa del malato. «In questo istante ‑ disse indirizzandosi a tutti ‑ dovreste sentire un benessere allo stomaco». L’uditorio rispose affermativamente. «Ormai ‑ aggiunse il Maestro ‑ è data alla menta piperita una nuova proprietà in più di quelle che già possiede. Non ne abusate, ma ogni volta che prenderete di questa pianta, proverete un benessere dalla testa ai piedi». Un giorno è venuto alla riunione un grosso agente biondo in borghese. Al momento in cui ho pregato le persone di alzarsi come al solito, è rimasto seduto, col cappello in testa. S’è arrotolato una sigaretta e s’è messo a fumare. In quel momento ho visto un angelo che attraversava il soffitto della sala ed è venuto a lui e l’ha segnato sul Libro di Morte. Tre giorni dopo era morto. È ben diverso non essere segnati sul Libro di Vita dall’essere segnati sul Libro di Morte. Un giorno il commissario speciale alle delegazioni giudiziarie, che io conoscevo, venne a chiedermi di dare per uno dei suoi amici di passaggio una seduta speciale alla quale, mi disse, mi pregava di invitare solo delle persone di un certo livello perché il suo amico era un personaggio importante. Il giorno fissato venne con il suo segretario e due altri signori che erano degli agenti. Davanti alla porta c’era una schiera di agenti. Tenni la riunione e fui avvertito di non fare esperimenti. Quando ebbi finito, dissi a quel signore: «È finito». «Non fate altro?». «No, signore». «Allora vogliate chiudere la porta e noi prenderemo i nomi di tutte le persone presenti. Voi rimarrete di lato, sorvegliato da questi due uomini. Ho ordine di perquisire la casa». Prese col suo segretario i nomi delle persone presenti e sequestrò alcune carte. Nello stesso tempo una perquisizione veniva fatta alla medesima ora a L’Arbresle, dove furono sfondate le persiane, e una da mio padre in Savoia. La sera ‑ diceva M. Philippe a Encausse ‑ ero deciso a punire quell’uomo. Mi fu quindi posto innanzi in corpo e spirito, e mi fu messa una spada in mano. Ma io gettai la spada. Malgrado tutto, non ne valeva la pena. Poi mi misi in ginocchio e pregai Iddio di perdonargli. Ma non so se è stato perdonato. Di tutti quelli che l’hanno aiutato in quell’occasione egli è il solo sopravvissuto, con il suo segretario. Quest’ultimo ha tentato in seguito, dietro mio consiglio, di riparare il crimine di cui era stato testimone, aiutando tutti quelli che gli inviavo. Ma lui, è rimesso alla Giustizia di Dio. Il medico deve agire senza contare sulla riconoscenza della gente. Un giorno un malato venne a trovarmi per dei dolori terribili al viso di cui soffriva, e mi offri, da sé, 1.000 franchi per guarirlo. Gliene domandai 500, poi 250, poi 100, e infine gli dissi che, se fosse guarito, mantenesse la promessa e mi desse 50 franchi. Gli feci una “operazione ” ed egli fu guarito all’istante. Otto giorni, quindici giorni, sei mesi passarono. Lo incontrai un giorno. Non mi riconobbe. Quando gli ricordai il suo male e la sua promessa, mi disse: «Oh, non avete poi fatto granché, detto fra noi; e in seguito sono andato dal dentista, che mi ha curato bene». Gli annunciai allora che avrei disfatto ciò che avevo fatto, e che sarebbe venuto di lì a due giorni a portarmi i 50 franchi. Venne, in effetti, con un enorme ascesso ai denti, ma io rifiutai i soldi e lo guarii ugualmente, dicendogli che era una lezione. |